Privacy Policy e note legali

giovedì 16 settembre 2010

Lo strano caso dei Labetropheus (parte II)

Labeotropheus trewavasae "Chitande"
Fotografia di Alessandro Lasagni

Nella prima parte di questo post, ho trattato la storia tassonomica di questo genere di Ciclidi africani, ora continuerò ragionando sul da farsi e ripartendo dai concetti di specie.
Se accettiamo il concetto biologico di specie, il concetto incentrato sulla possibilità che due individui possano incrociarsi tra loro e figliare, il mistero dei Labeotropheus sembra rimanere tale e quale. Infatti tale concetto non è molto chiaro sul destino tassonomico delle diverse popolazioni allopatriche e dichiararle specie diverse o semplicemente morfi locali è quasi solo questione di gusto personale. Tuttalpiù possiamo programmare una serie di esperimenti tra maschi e femmine di popolazioni differenti e vedere se gli individui si scelgono. Se due popolazioni manifestano preferenze significative nei vari incroci allora appartengono alla stessa specie. Il concetto di specie che si basa sul riconoscimento dei partner, invece, pone problemi di altro genere: in base ai principi di questo concetto l'ibridazione in natura non dovrebbe esistere dato che all'interno di ogni specie gli individui dovrebbero riconoscersi facilmente. Il che non è vero. Il concetto darwiniano di specie, invece, è riconducibile a un concetto di specie filogenetico, un concetto in cui ciò che conta è la purezza dell'ascendenza. Per come è stato definito questo concetto, non provo neppure a entrare nei dettagli. Troppa confusione.
Secondo l'autore il concetto di specie più adatto ai ciclidi Mbuna è quello evolutivo: una specie è un singolo lignaggio dove è possibile stabilire relazioni di ascendenza-discendenza per gli organismi che ne fanno parte e che ha una propria tendenza evolutiva ed una propria fine. Quindi una specie in questo caso è una popolazione o un'insieme di popolazioni con gli stessi antenati in comune e che sviluppa qualche tratto che la renda distinguibile da tutte le altre.
In base a quest'ultimo caso per decidere se le popolazioni in oggetto appartengono ad una stessa specie occorre un pianificare una buona serie di incroci controllati e in parallelo studiare attentamente la visione di questi pesci dato che sicuramente influisce sulla capacità di scegliere il partner. Nel Lago Vittoria, per esempio, i ciclidi maschi delle specie di superficie tendono a presentare una maggiore percentuale di rosso rispetto alle specie di habitat profondo. Le femmine di queste specie sviluppano pigmenti della vista sensibili alle lunghezze d'onda maggiori, quelle che virano verso il rosso. Nei Labeotropheus potrebbe essere presente un fenomeno simile per cui le colorazioni maschili sono accoppiate a femmine dotate di specifici pacchetti di recettori in grado di riconoscere la livrea del maschio conspecifico. Una sorta di colorazione "ad personam". Il bello dei ciclidi, infatti, è che questi pesci posseggono almeno sette differenti pigmenti in grado di catturare la luce, ma ne esprimono solo tre alla volta. Calcolate voi le combinazioni possibili.
Concludendo trovo la proposta contenuta nell'articolo interessante e operativa. Occorre solo mettersi lì e attuare gli esperimenti (li trovate nell'articolo, ma c'è siete creativi potete pianificarne altri dato che vi sono almeno 30 diverse popolazioni di Labeotropheus che si differenziano per la colorazione maschile). Quello che mi sfugge è la differenza tra il concetto evolutivo ed il buon vecchio concetto biologico di specie. Non parlo della differenza di definizione, ma di quella operativa. Tutti e due i concetti possono essere messi alla prova con lo stesso sistema: esperimenti di scelta del partner. Quindi perché preferire il concetto evolutivo? Solo perché il concetto biologico non può essere applicato agli organismi a riproduzione asessuata? In fondo parliamo di vertebrati.




Ringrazio Alessandro Lasagni per aver gentilmente messo a disposizione le fotografie dei Labeotropheus.

Nessun commento: