Ieri la Convenzione di Ramsar ha compiuto quarant'anni e come da tradizione anche quest'anno il 2 febbraio è stato dichiarato Giornata internazionale delle Zone umide. Queste ricorrenze dovrebbero essere giornate di festa ed invece sembra di essere a un funerale perché si tramutano in lamenti riguardanti cosa abbiamo perso. Se vi interessano dei dati guardate qua e qua.
Dove vivo io, pianura della provincia di Bergamo, l'acqua ha modellato il territorio e le menti al punto che le leggende vogliono la presenza in passato di un enorme lago, il lago Gerundo (trovate un buon resoconto sui mostri del lago Gerundo in questo link a cura del CICAP). In realtà il lago era un'immensa zona acquitrinosa che le bonifiche medioevali domarono donandoci i fontanili. A parte i fontanili, oggi, le zone umide sono veramente poche. Io ne conosco solo una, ma non ho pretese di onniscienza. È una piccola raccolta d'acqua temporanea dominata dalla cannuccia di palude che ospita una fiorente popolazione di tritone crestato (Triturus carnifex). Ogni anno i lavori agricoli ne riducono la superficie; è un lento stillicidio che passa inosservato. Ora siamo sotto l'ettaro.
D'inverno appare così, ma non lasciatevi ingannare; d'estate, quando risale l'acqua, l'area pullula di vita
Non era però mia intenzione scrivere un post melanconico o di disprezzo verso il mondo e per questo pongo una questione. Nel mettere in risalto l'importanza delle zone umide si insiste tanto sul loro valore economico che dovrebbe attirare il consenso al salvataggio (estrazione di torba, riserve di pesca...). Eppure le zone umide continuano ad essere distrutte. Perché? La risposta per me è semplice. Il valore economico delle zone umide ricade sulla collettività e ricadendo su tutti è come se ricadesse su nessuno. Forse il gioco riesce meglio se puntiamo sulla biodiversità delle zone umide, sul loro valore etico. Che ne pensate?
È opportuno che torni ai ciclidi: il Carnevale della Biodiversità incombe.
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